È ANCORA IL LABOUR DI CORBYN IL MODELLO AL QUALE VUOLE ISPIRARSI LA SINISTRA?

da Dic 20, 2019News

di Luca Perrone

Nei giorni della disfatta elettorale del Labour di Corbyn non è corretto fare un parallelismo con l’attuale centro-sinistra italiano. Dal partito inglese ci distingue la netta posizione europeista delle forze progressiste italiane, a partire dal Partito Democratico di Zingaretti ed includendovi sicuramente, e questa potrebbe essere un’eresia per molti, Italia Viva di Renzi, Azione di Calenda, +Europa di Bonino, ma anche LEU.

La posizione indecisa e vaga sulla Brexit, indipendentemente da quella personale di Corbyn (da ricordare una celebre intervista di più di un anno fa dove il leader del Labour, più volte incalzato dal reporter rifiutò di esprimersi se fosse meglio per la Gran Bretagna essere fuori dall’Unione Europea – qui il link al video), ha sì permesso di conservare parte del suo elettorato che si era espresso per il Leave, ma si è al contempo giocata l’ampio consenso di una gran parte della popolazione, soprattutto i giovani, che era scesa in piazza a Londra (si stima fossero all’incirca un milione le persone che sfilarono il 19 ottobre 2019 nella manifestazione per il “Final Say”) per richiedere un secondo referendum, popolazione storicamente più vicina al Labour che ai Tories, perdendo quindi drammaticamente le elezioni.

Elezioni volute da Boris Johnson incentrandole proprio sulla Brexit, e che Corbyn ha sbagliato ad accettare, nel momento di maggiore debolezza dei Tories e contro uno dei più improbabili candidati premier che il Regno Unito abbia mai visto, ma senza volersi schierare sul tema principale e discriminante della campagna elettorale.

Ne fa un’analisi spietata e lucida Tony Blair nel suo interessantissimo intervento di mercoledì 18 che potete leggere in inglese a questo link o tradotto in italiano negli articoli de Linkiesta e di libertàeguale, ma che potete anche vedere in video su Youtube.

Ma con il discorso di Blair veniamo al secondo aspetto che invece vede alcune possibili analogie tra il Labour di Corbyn e le posizioni attuali della Segreteria del PD, nonché di LEU e degli altri partiti che si pongono a sinistra del PD.

Ovvero al rischio che l’attrazione verso il modello Corbyn possa portare non tanto ad una sconfitta elettorale, comunque probabile, quanto al venir meno dello spirito riformista e progressista che il PD si era voluto dare con il suo atto fondativo e di conseguenza al possibile superamento della sua funzione e ad un inesorabile declino.

Perché sicuramente un fatto accomuna i due partiti ed è quello che Blair così sintetizza:

The extraordinary thing is the Labour Party’s desire to rewrite its only period of majority government in half a century in negative terms.

La cosa straordinaria è il desiderio del Partito Laburista di riscrivere in termini negativi il suo unico periodo di maggioranza di governo in mezzo secolo.

Il voler rinnegare a tutti i costi, in una sorta di redde rationem nei confronti dell’ex segretario, la stagione riformista dei governi Renzi/Gentiloni sposta inevitabilmente il partito, se non all’estrema sinistra, sulle posizioni della socialdemocrazia novecentesca in una società però totalmente trasformata, o, in alternativa, lo avvicina a quelle del populismo del Movimento 5 Stelle, con la conseguenza sì di recuperare una parte (minima) del suo elettorato deluso ma al contempo perdere per emorragia l’elettorato moderato di sinistra che in quella stagione aveva visto una speranza concreta. Ma anche con il rischio, in termini concreti di voto, di perdere credibilità come forza di governo.

Trasformazione avvenuta nel Labour di Corbyn, e qui nuovamente Blair la sintetizza benissimo, ma che nel panorama politico italiano si complicherebbe ulteriormente proprio per la presenza di una forza populista come il Movimento 5 Stelle, che a seconda della convenienza del momento è disposta ad allearsi sia con la destra sia con la sinistra, verso la quale l’attuale Segreteria del PD, unitamente a LEU, sembra irresistibilmente attratta tanto da vedersi assieme in un ventilato “campo progressista”.

«Conte si è dimostrato un buon capo di governo. Autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente. Non va tirato per la giacchetta. Anche se è oggettivamente un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste. Il futuro, tuttavia, sarà determinato dalle scelte che ognuno compirà nei prossimi mesi».

Sono difatti delle ultime ore le dichiarazioni del segretario Zingaretti rilasciate al Corriere (qui il link) che hanno lasciato a dir poco basiti tanti militanti e tradizionali elettori del PD, soprattutto quelli che hanno toccato con mano e da vicino la capacità di governo e la credibilità della classe politica a 5 Stelle, come a Torino e Roma, o che riescono, purtroppo per sole capacità proprie, a bypassare la propaganda mediatica e realizzare la triste realtà della politica grillina a livello nazionale con le sue scelte scellerate (vedi ILVA e non solo).

Ma allo stesso tempo questa scelta di campo, che in un qualche modo somiglia a quella operata da Corbyn pur differenziandosi dalla stessa per la tipicità italiana, tende ad escludere quelle forze moderate e progressiste che invece non riuscirebbero a riconoscersi in un “campo progressista” che comprenda al suo interno il Movimento 5 Stelle, rinunciando in partenza a quella che Blair indica come una possibile ricetta per la ricostruzione del Labour post-Corbyn ovvero:

In primo luogo, dovrebbe esserci un dibattito dentro e fuori il Partito laburista sul futuro della politica progressista, su come deve essere ricostruito e rimodellato in una coalizione vincente. Bisogna includere laburisti tradizionali di sinistra e destra, i liberal democratici e coloro che sono disillusi dai partiti principali e quelli che attualmente non sostengono alcun partito. Deve essere un dibattito sotto la “Grande Tenda”, aperto e franco.

In secondo luogo, abbiamo urgentemente bisogno di una nuova agenda per la politica progressista. Al centro di ciò ci sarà la comprensione e la mobilitazione della rivoluzione tecnologica, l’equivalente del 21esimo secolo di ciò che è stata la rivoluzione industriale nel 19esimo secolo. Significherà un completo riordino del modo in cui Stato e Governo sono concepiti e organizzati; grande attenzione all’istruzione e alle infrastrutture; nuovi modi di affrontare la povertà generazionale; ripensare la governance e la responsabilità delle imprese; uno stimolo a livello nazionale e internazionale della scienza e della tecnologia per il cambiamento ambientale; e misure molto specifiche per collegare le comunità e le persone lasciate alle spalle dai cambiamenti determinati dalla globalizzazione.

Abbiamo bisogno di politiche per il futuro. Radicali, ma moderne. L’agenda dell’estrema sinistra non è progressista; è una forma di regressione verso un vecchio statalismo, verso il programma tassa e spendi degli anni ’60 e ’70.

Capisco che per qualcuno sia attraente, visto che affronta in modo intenso l’emarginazione e il desiderio di cambiamento radicale.

È un grido di rabbia contro “il sistema”. Ma non è un programma di governo.

Per tornare a vincere, abbiamo bisogno di autodisciplina, non di autoindulgenza; ascoltando ciò che la gente dice veramente, non ascoltando solo le parti che vogliamo ascoltare; capire che non puoi giocare solo con passione, ma che servono strategia, preparazione e professionalità; vincere la battaglia intellettuale assieme a quella politica.

E’ questo un programma politico che potrebbe vedere la luce anche all’interno del Partito Democratico senza essere tacciato di liberismo e di destra?

Il Partito Democratico si ritiene ancora una vera forza progressista che rifugge dai facili populismi?

Le possibili risposte a queste semplici domande è probabile che segneranno il destino e la sopravvivenza del partito nelle forme che hanno permesso a Veltroni prima ed a Renzi poi di raggiungere un ampio consenso elettorale, accreditandosi presso gli Italiani come una vera forza politica di governo.