Effetti sociali e politici di un virus

da Mag 12, 2020News

di Carlo Tresso

Nella miriade di segnali contraddittori di questi mesi si stanno delineando due temi di carattere generale: da una parte il confine tra sicurezza e rischio, dall’altro tra Stato e individuo.

La pandemia ha infatti innescato una crisi che era già latente su entrambi i fronti e ci ha messi di fronte alla necessità di affrontare la costruzione di un nuovo equilibrio.

Il virus di per sé genera una patologia che in altre epoche sarebbe stata vissuta con fatalismo: non è neppure la più pericolosa tra le malattie, né quella che causa maggior sofferenze, tanto meno quella che causa il maggior numero di decessi; è mortale solo in determinati casi e in presenza di determinate condizioni di età e patologie concorrenti; in ampie fasce della popolazione, soprattutto quella giovane, è asintomatica o sintomatica in maniera irrilevante.

Avrebbe mietuto le sue vittime, in concorrenza con altri fattori, poi sarebbe scomparsa o si sarebbe ridotta a percentuali di diffusione fisiologiche.

Ai nostri giorni invece il virus ha generato la percezione di un rischio non sopportabile e ha determinato una reazione abnorme, in nome dell’argomento indiscusso nella nostra epoca per cui la sicurezza viene prima di tutto.

Si tratta dello stesso approccio che in aeroporto ci costringe a subire controlli minuziosi o che ha prodotto la legge che obbliga a montare seggiolini anti abbandono in auto: a causa di episodi tragici ma assolutamente sporadici anziché intervenire sulla genesi degli stessi si è imposto a tutti un meccanismo complesso e oneroso con il risultato che non abbiamo risolto il rischio terrorismo né quello di incidente domestico ma siamo tutti costretti a comportamenti oggettivamente sproporzionati.

L’idolatria della sicurezza porta alla deresponsabilizzazione del singolo, che si affida ad una macchina o ad un processo estraniandosi dal problema, e alla paralisi delle attività che vengono rallentare fino a fermarsi da una sovrastruttura artificiosa.

Esagerando il concetto, l’unico modo per illudersi di non correre rischi sarebbe non fare assolutamente niente per poi paradossalmente trovarsi in situazione di rischio anche peggiore di quella che si vorrebbe evitare: alla pandemia abbiamo reagito come se per non rischiare intossicazioni alimentari smettessimo di mangiare.

Non abbiamo ancora capito fino in fondo cosa abbiamo immolato in questi tre mesi in nome della lotta al virus: forse il peccato più grave è stato rinunciare al futuro, soprattutto quello dei nostri figli bloccando la loro crescita, o ancora peggio progettare un futuro incardinato non sul nostro pieno sviluppo ma sull’evitare malattie.

Preferibile sarebbe stato riflettere sulla gestione del rischio, che non significa avere l’obiettivo di arrivare a pericolo zero, ma perseguire il bilanciamento tra minimizzazione del pericolo tramite misure di contenimento dello stesso e prezzo da pagare per le misure stesse, tra efficacia dell’intervento e effetti collaterali.

D’ora in avanti si presenteranno quotidiane scelte concrete tramite le quali ridisegneremo questo confine: riaprire le scuole come prima, magari fissando in sessant’anni l’età massima per insegnare, o affidarci alla didattica on line? Riaprire i confini e la possibilità di viaggiare a tutti ad eccezione di chi presenta sintomi di malattia o restare a casa (in città, in regione, nel proprio stato)? Prevenire le pandemie riducendo drasticamente i contatti tra le persone o agendo sui presupposti del loro sorgere o quanto meno sui fattori che ne moltiplicano la pericolosità quali – per quanto se ne sa finora – l’inquinamento, la resistenza agli antibiotici, le patologie concorrenti, gli allevamenti intensivi?

Non sarà facile affermare un modello basato sul valore dell’uomo in tutti i suoi aspetti, fisici e spirituali, perché è necessaria una saggezza e una lungimiranza che mal si concilia con questo clima di emergenza più o meno fomentato …

Contestualmente la pandemia ha giustificato una pervasività quasi senza precedenti dello Stato nelle nostre vite private, intese come individuali, famigliari, comunitarie: solo regimi francamente totalitari avevano osato tanto.

Ci è stato detto di “restare a casa”, ci è stato proibito di trovarsi con parenti e amici, ci è stato imposto un modello di vita basato su relazioni digitali, veniamo ossessionati da slogan unidirezionali, addirittura non possiamo nascere o morire insieme a chi vogliamo …

Il processo di intrusione statale nasce da molto tempo prima e ha avuto uno sviluppo deciso negli ultimi venti anni perché al crescere delle disparità sociali e al contestuale ridursi delle risorse globali disponibili il mantenimento dello status quo è possibile solo con un crescente controllo del comportamento e della mentalità delle persone e delle comunità.

Crollati paradigmi che nella civiltà occidentale derivavano dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, il limite è continuamente messo in discussione e vede l’imposizione di regole generali sempre più condizionanti il nostro agire; preferibile sarebbe fermarsi e ridisegnare il confine punto per punto, ricercando un equilibrio tra norme a salvaguardia della convivenza reciproca e libertà nel decidere la propria esistenza.

Anche in questo caso vanno affrontate scelte concrete e quotidiane che ci portano dritte nel cuore del principio stesso di democrazia nel momento in cui si deciderà quale modello di governo adottare, se maggioritario o pluralista, se oligopolistico o multirappresentativo, come già sta accadendo in altri paesi del mondo.

Medesime scelte si riproporranno nei singoli settori della politica; ad esempio in quella sanitaria dovremo decidere se impostarla su comportamenti permessi/proibiti o piuttosto su misure di sicurezza e responsabilità individuale.

La maggiore difficoltà nell’affermare un modello sostenibile basato sui diritti fondamentali dell’uomo – in particolare su quello di eguaglianza – è che raramente il potere rinuncia spontaneamente agli spazi conquistati e che quindi probabilmente solo lo sviluppo di una consapevolezza diffusa e di una capillare azione di massa, auspicabilmente non violenta, porterebbe a raggiungere questo obiettivo.